studio@sebpatane.com
Noi, i ragazzi di Giarre
Arrivai a essere “dark”, e cioè parte del movimento giovanile di origine inglese successivo al punk, (tradotto “oscuro”, così denominato in italia ma originariamente goth, abbreviativo di gotico, nei paesi anglosassoni) agli inizi della seconda metà degli anni ‘80. Dato che la nascita di questa cupa sottocultura coincide con i primi anni di quella decade, ciò volle dire che facevo già parte della seconda generazione, come è stata definita in tempi recenti, ad esempio nel libro “Creature Simili, il dark a Milano negli anni ottanta” di Simone Tosoni ed Emanuela Zuccalà (Agenzia X, 2013), testo che cito sin da adesso come parziale ispirazione di questo mio articolo. Questa seconda ondata è considerata da certi come il passaggio alla fase generalmente più superficiale del fenomeno, meno significativa, e più legata ad un fenomeno di pura moda piuttosto che socio-culturale.
Non era così, o almeno, dal mio punto di vista non lo era.
Si, il post-punk più fresco ed urgente era evaporato lasciando strada ad imitazioni, scimmiottamenti, manierismi e teatralità spesso di poco valore, ma c’era ancora tanto da dire e fare, se non addirittura di più. Sembra incredibile dirlo adesso ma ai tempi, semplicemente presentarsi in giro o a scuola vestito completamente di nero, con un taglio di capelli più immaginativo e gli anfibi militari ai piedi, era un atto che rappresentava un vero e proprio schiaffo per la persona media, e un segnale di un certo peso.
Il dark è tipicamente visto come un movimento giovanile meno politico e impegnato rispetto al punk, ma anche questa a mio avviso è sempre stata una svista grossolana, una scusa per attaccare uno stile di vita e di pensiero che aveva una sua profondità ma allo stesso tempo anche un corrispettivo estetico per certi troppo ornato e ricercato, scomodamente barocco, fastidiosamente drammatico.
Invece, il solo gesto di collocarsi per strada diafani e in nero totale, fungeva già da leggera destabilizzazione per una società che pativa l’esplosione del successo forzato, e che abbracciava le regole del colore più fluorescente e della materialità più irrefrenata.
Anche se non avevamo l’impeto esplosivo del punk, o il desiderio ingenuo di cambiare il mondo degli hippies, eravamo comunque delle quiete figure che, allo stesso tempo, disturbavano l’ordine psicologico con una sola passeggiata in piazza; era una performance sottile, ma continua e precisa, che attaccava il subconscio in maniera minimale ma profonda.
O almeno lo era per noi, dark di provincia.
Eravamo circa 4, o 5, tra Giarre e Riposto, province adiacenti di Catania a 30 minuti scarsi dal capoluogo. Tutti per lo più maschi, a parte delle apparizioni saltuarie e intermittenti di qualche ragazza. Pochi ma buoni, anzi buonissimi. Naturalmente negavamo con tutte le nostre forze di farci chiamare o etichettarci come “dark”, ma adesso, da ultraquarantenne, lo ammetto con tenerezza ed orgoglio, dark era proprio quello che identificavamo.
Non ricordo bene neanche come arrivai precisamente a questa mia trasformazione; in un certo senso credo fosse qualcosa in me da sempre.
L’adorazione per gruppi musicali come i Cure o i Depeche Mode e una breve fase di nero modaiolo nel look di mia sorella più grande (sempre fonte di ispirazione e a gran passo con i trend del tempo), potrebbero essere inizialmente da biasimare. Di certo però, l’investigazione di una scelta di vita “alternativa” e sicuramente crepuscolare, per un ragazzo Siciliano di 15 anni, sarebbe più complessa e per tanto avrebbe bisogno di ben altra analisi, e forse di un altro articolo a sé stante.
Al momento quello che mi preme raccontare a sommi capi, e con memorie e cronologia a tratti incorrette e confuse, è soprattutto il transfer tra provincia e città; la dicotomia tra i due poli, l’astio, la frustrazione, il desiderio di appartenenza e partecipazione spesso unilaterale, e l’ispirazione ma anche le delusioni che potevano procurare le fughe in entrambe le direzioni.
Prima di “noi” in paese c’era stata un’altra piccola generazione di esseri ribelli; un gruppetto di dark, punk, e quegli ibridi che, odiosamente e pigramente, venivano individuati come “metallari”. Quando ero piccolo costituivano un’apparizione rara, brevi segnali di un mondo urbano e magico lontano dalle restrizioni del paese. Chiome blu o rasature leopardate, chiodi in pelle, stivali lucidi, colorito anemico e atteggiamento scostante. Mi sembravano creature ultraterrene, probabilmente complici di piantare nel mio subconscio le radici dell’interesse verso cos’era “altro”.
Su di loro si speculavano voci di eccessi di droga e alcol, fughe ad Amsterdam e Milano, problemi con la legge. Non ho mai saputo quanto fossero vere queste accuse, e comunque poco importa; certo non mi sorprenderebbe se tutte queste dicerie fossero aggravate dall’impossibilità di comprendere.
Spesso in provincia questi fenomeni di costume assumevano fattezze e modi estremi, estetiche forti, comportamenti ancora più netti e definiti, rispetto alla città, dove l’assimilazione anche se non necessariamente meno incisiva, di sicuro risultava maggiormente fluida e forse più pigra e meno bisognosa di approvazione, per certi versi.
Presto anche noi avremmo raggiunto la nostra maturità visiva; non ci risparmiavamo con le cotonature dei capelli, il borotalco in faccia, i crocifissi e i rosari comprati al negozio vicino alla chiesa madre di Giarre, le scarpe a multiple fibbie ordinate per posta da “Inferno e Suicidio” di Firenze.
Ci volle un pò di tempo, ma verso l’86/87 eravamo perfetti, stilosissimi, pronti, senza freni o rimorsi.
Spesso ci rifugiavamo nella stanza minuscola di Daniele ad accarezzare il susseguirsi di cani i quali puntualmente si ammalavano e morivano, (non per colpa nostra, tengo a precisare) e ad ascoltare dischi, che si corrodevano per il ripetuto (ab)uso, e fantasticare su vite immaginarie e viaggi avventurosi in lunghi pomeriggi statici ma allo stesso tempo di grande movimento.
Le nostre fuoriuscite invece non erano sempre gradevoli: a parte la routine delle inveite giornaliere da parte più o meno di tutti, avevamo i nostri nemici ufficiali, ragazzotti che con le loro vespe e motorini ci ronzavano attorno; ci avevano preso di mira come passatempo, sapevano dove trovarci e come insultarci.
Ma avevamo anche i nostri sostenitori; con un miscuglio di affetto e forse tenerezza non sempre ingenua, eravamo ben accolti, diciamo, da quelli che in Piazza Carmine stavano ai margini della socievole gioventù del sabato pomeriggio: cannaroli, “psichedelici”, quelli che ascoltavano Led Zeppelin e Pink Floyd, che facevano parte di gruppi musicali come Lobotomia o Esperia NPS, e anche da un pugno di Ultras del Giarre calcio che in qualche modo avevano visto in noi una passione focosa e focalizzata che sapevano riconoscere.
Io faticavo un tantino più degli altri ad interagire con questi personaggi, soprattutto per le loro dosi esuberanti di testosterone e machismo; non avevo ancora nè esplorato nè tantomeno capito la mia sessualità, ma a volte essa già cominciava a cozzare con il ribollire ormonale da teenager che alla fine accomuna o dovrebbe accomunare tutti.
Ma di questo non ne ho mai fatto un ostacolo troppo grosso; alla fine ero un sognatore e troppo preso da i miei voli pindarici e la sopravvivenza quotidiana per potermi preoccupare di questi dettagli che allora consideravo così terreni.
Del rapporto con i genitori ne potrei parlare quasi in un libro a parte; credo sia sufficiente accennare che naturalmente erano a dir poco disperati per queste nostre velleità. Il nero, soprattutto in Sicilia, rappresentava e credo rappresenti tuttora fortemente il lutto, quindi tanto per iniziare questo proprio non si poteva sostenere. A mia madre le colleghe di lavoro avevano addirittura detto che facevo parte di un culto Satanista, cosa che ho dovuto smentire tra le risate e la frustrazione.
Ma non era tutta amarezza; mio padre tutto sommato era abbastanza rilassato sulla questione, e buonanima sua, era pure daltonico, quindi quando mi tinsi i capelli di rosso acceso con l’hennè, neanche se ne accorse. Mia madre invece, una sera prima che uscissi, dopo avere scrutinato severa e a puntino il mio look, dovette arrendersi e con mezzo sorriso disse la frase che più di tutte fece sciogliere il mio giovane cuore: “sembri proprio quello dei Chiur”.
Alle superiori ero stato graziato chissà da quale divinità nell’essere circondato da un gruppo di compagni di classe affettuoso e sostenitore. Non ho mai capito il vero perchè di questa enorme benedizione, come mai non mi furono contro dato che ormai era una cosa che davo per scontato, ma fu una fortuna importantissima che ai tempi mi salvò la vita. Mi avevano praticamente adottato, in buona fede, come una specie di mascotte e mi ero pure guadagnato l’ilare soprannome di “maghetto”, che ho sempre adorato.
Durante la pausa di ricreazione gli studenti delle altre classi facevano a turno ad insultarmi, e sfidavano i miei compagni a disprezzarmi pure, cosa che loro rifiutavano di fare ripetutamente e in relativa serenità; atteggiamento per il quale si meritano per sempre la mia più sentita gratitudine.
Le estati in un paese del sud in riva al mare invece erano diventate un’altra specie di tortura; per un’intera stagione mi rifiutai di andare in spiaggia, cosa che amavo fare da bambino, per mantenere il colorito pallido. Se ci penso adesso mi sembra una penitenza ridicola, ma ai tempi queste scelte ed azioni si dovevano fare e rispettare. Strati spioventi di capelli laccati e lunghe camicie nere erano un disastro da sostenere col caldo umido mediterraneo, ma in compenso avevo escogitato un metodo per ottenere una perfetta capigliatura; cotonavo i capelli e li saturavo di spray fissante prima di scappare fuori, poi di gran corsa montavo e guidavo a tutto gas il mio beneamato scooter Benelli, roteando la testa così da fissare e far asciugare la lacca e arrivavo a destinazione con una splendida criniera esplosiva, e mi sentivo fiero, pronto, forte. Queste cose a sentirle così nude e crude adesso sembrano incredibilmente superficiali, ma in quegli anni, e nel contesto della nostra ‘lotta’ quotidiana, erano valide, e ti rendevano capace e abile.
Lo scooter si era trasformato in un simbolo di libertà, un complice di viaggio fisico e cerebrale, sofferto e sofferente, sul quale praticamente vivevamo. Un simbolo anche di differenza, dato che in quegli anni tutti avevano il Si o la Vespa Piaggio. Daniele aveva comprato un Benelli identico al mio, devo ammettere con mio leggero risentimento dato che il reciproco supporto era sempre al centro di tutto ma un tocco di sana competizione pure.
Su quei due poveri cartocci gemelli ci abbiamo piantato su tutto e tutti, e fatti i chilometri più esagerati.
Con lo scooter “osavamo” andare pure in città, a volte. Uso il verbo “osare” perchè alla fine eravamo bravi ragazzi, di famiglia borghese e convenzionale, e queste cose ci sembravano ingenuamente trasgressive.
Ma per lo più agli inizi a Catania ci si andava in treno. Cominciammo con delle scorribande pomeridiane, per andare da Rock 86 in Via di San Giuliano o Musicland e Best Records a comprare dischi, o qualche camicia e giacca da Cemento in Via Etnea, quando avevamo abbastanza soldi.
Non potrò mai dimenticare la foga nell’andare ad acquistare l’album Disintegration dei Cure appena uscito, questo più tardi nell’89, per poi affrettarci ad andare a casa col primo treno per ascoltarlo, ed infine chiamarci a turno al telefono, per dirci l’un l’altro quanto era bello, quanto era fantastico. Ma io mentivo.
A me non era, e non è mai piaciuto; troppo pomposo, gonfio, con una produzione eccessiva e luccicante e allo stesso tempo soffocante. Ma certe bugie e forzature erano inevitabili perché facevano parte di un atto teatrale totale che bisognava mettere in scena sempre e in ogni caso.
Nelle nostre visite Catanesi speravamo soprattutto di incontrare altre anime in sintonia con noi; eravamo desiderosi di conoscere animali affini, scambiare idee con loro e parlare di tutto quello che avevamo incapsulato. I vestiti d’altronde erano il modo di comunicare di allora quindi speravamo fossero un segnale sufficientemente chiaro per instaurare rapporti; incontrare, o anche semplicemente avvistare qualcuno come “noi”, era un momento speciale e magico, una rassicurazione del fatto che non eravamo soli.
Ma la vita alternativa in città era specialmente notturna, e per noi quello rappresentava un ostacolo ancora grosso.
Iniziammo timidamente ad uscire in città in treno pure di sera, ma questo voleva dire tornare in paese con l’ultimo, che se non sbaglio fosse verso le 22.30, o giù di lì, orario ridicolo per una notte che potesse essere degna di definirsi tale.
Andavamo al pub The Other Place, vicino piazza Università, perchè era l’unico dove sapevamo bazzicasse gente che poteva interessarci. Era un posto fumoso ma piuttosto luminoso, pieno di legno stressato apposta, dove servivano un goulash buonissimo. Se non sbaglio esiste ancora; ai tempi era frequentato da alcuni rockettari, un paio di punk e dei dark, comprese due ragazze con le quali iniziammo a flirtare un po’, chi in maniera più seria e chi più platonica, ovviamente.
Ma la notte che perdemmo l’ultimo treno e fummo costretti a prendere un taxi per casa, alla sonora somma di 50 mila lire, abbandonammo del tutto le nostre spedizioni ferroviarie semi notturne, temporaneamente sconfitti.
Ancora non avevamo 18 anni e quindi neanche la patente di guida, ma appena uno compiva il traguardo tanto anelato, lo torturavamo con richieste di passaggi in macchina e implorazioni di portarci in città, a trovare chissà cosa.
Un paio di volte Riccardo fu costretto a guidare il catorcio della mamma di Pasquale che sembrava fatto di latta, con un finestrino mancante, sostituito da una busta di plastica trasparente che faceva penetrare l’aria fredda invernale. Ci stipavamo tutti come sardine in eccesso di numero legale, con una vittima che puntualmente passava tutto il tragitto nascosto in caso ci fermassero i carabinieri, che comunque in quel periodo ironicamente si sollazzavano a romperci le scatole più che altro quando eravamo fermi in strada a mangiarci un arancino piuttosto che alla guida di veicoli mezzi rotti.
Bene o male arrivavamo a destinazione; le discoteche soprattutto erano difficili da raggiungere, ma appunto di tanto in tanto riuscivamo a conquistarne la pista.
Avevamo sentito parlare delle serate del Non Solo Nero al Divina, ci arrivammo un paio di volte, una gloriosa in particolare, per vedere il concerto del gruppo elettronico Fiorentino, Pankow, che mi folgorò completamente.
“Sembrano Sabrina Salerno”, sentenziò un gruppo di ragazzotti fuori contesto accanto a me, solo perchè i Pankow usavano batteria e basi elettroniche. “Idioti”, pensai; “questo è il futuro”.
La Catania alternativa ha sempre mantenuto un leggero disprezzo per quello che non fosse diciamo tradizionale musicalmente; è sempre stata la città delle schitarrate serie, la “Seattle del sud” come fu battezzata negli anni ‘90.
Questo malcelato conservatorismo mi faceva cagare, ma allo stesso tempo di contrasto mi ispirava a spingermi verso ascolti e soprattutto interessi artistici ancora più esoterici e sperimentali.
La stessa scena dark Catanese ad esempio conteneva una frangia piuttosto macho che mi disturbava.
Al contrario dell’essenza del dark come movimento in generale, che almeno abbracciava ambiguità e androginia altrove, qui in questa città meridionale il “maschio alpha dark” prevaleva sempre.
C’era un gruppo di questi elementi ossessionati con il gruppo Inglese Bauhaus; vestivano di pelle nera e poco o niente trucco, capello rasato ai lati ma mai cotonato, sempre “maschio”, e avevano addirittura il loro urlo di battaglia personalizzato.
A noi che eravamo evidentemente più influenzati esteticamente dalle frivolezze dei Cure o il barocchismo virato di nero di Siouxsie and The Banshees ci prendevano in giro, ci chiamavano “Robertini”, con una mascherata omofobia di fondo che mi ha sempre perplesso e deluso.
Un’altro problema della “tribù” dark è che è sempre stata tristemente bistrattata e derisa anche dalle altre sottoculture, perchè vista sempre troppo adornata, troppo piena di pathos nell’apparenza, ed, in certi casi, dotata di una sessualità senza focus di certo subliminale, ma allo stesso tempo sempre pericolosa e destabilizzante. Quindi in pratica ne sentivamo di tutti i colori, da tutti, anche quelli dell’ambiente cosiddetto alternativo. C’erano i primi post-punk, quelli della gang di Cesare Basile, allora leader del gruppo Candida Lilith, che poi diventò Quartered Shadows, che se la tiravano perché avevano vissuto a Berlino e ascoltavano roba meno etichettata come Sonic Youth e Nick Cave, e che ci guardavano malissimo; gli facevamo schifo, forse pena. O forse non gliene fregava niente ed era solo la mia paranoia adolescenziale a soffrirne. Ma di sicuro venivano alle nostre serate solo per dimostrare il loro disappunto, per prenderci passivamente in giro, che perdita di tempo.
Quello che non sapevano è che almeno noi, nel nostro gruppetto, ascoltavamo di tutto, soprattutto musica sperimentale tipo Coil e Current 93, solo che dall’aspetto sembravamo fossimo sintonizzati solo su gruppi prevedibili come Cure e Sisters of Mercy. Leggevamo, andavamo a tutti gli scioperi e le manifestazioni delle scuole, facevamo i vegetariani, scrivevamo e disegnavamo, ci vedevamo come esseri mistici e spirituali. Ma queste, che vedevamo come virtù, non avevamo necessariamente bisogno di sbandierarle ai quattro venti, sentivamo che quello fosse un atteggiamento prettamente cittadino e non da provincia, e ci stava bene così.
Le nostre visite nella vita notturna Catanese, appunto, non andavano sempre bene. Al Sunday Rock all’Empire una volta ci negarono l’ingresso, perché, usando le loro parole, eravamo troppo “estremi” nel look. Una discoteca “alternativa”, dove vietano l’ingresso a gente, “alternativa”. Ci fece così schifo questa cosa che scrivemmo subito una lettera arrabbiata a Quo Vadis, il mensile gratis di cultura che veniva distribuito ai tempi in locali e negozi. Ce la pubblicarono, ma con un commento secco, freddo, e ironico che andava a nostro discapito. Il nostro gesto aveva avuto successo solo a metà.
D’estate, al Cabana di Giardini Naxos, la versione stagionale del Divina, c’era pure la menata di chi all’ingresso non ti faceva entrare, solo perchè gli stavi sul culo; rampolli Catanesi in trasferta che giocavano a fare i buttafuori, a sentirsi potenti. A volte era obbligatorio entrare con delle ragazze, che avevano l’ingresso gratis, quindi stavamo fuori dall’ingresso ad implorare turiste in vacanza che, impietosite, entravano con noi per poi scapparsene subito.
Non che né il Divina o il Cabana fossero ambienti particolarmente di nicchia. Sì, una buona metà della folla era composta da gente vestita in nero, ma il resto erano casual, lì per caso, i ragazzi possibilmente per provare a rimorchiare qualche darkettina, dato che le ragazze della scena sembravano erroneamente dall’aspetto facile.
Poco a poco ci stancammo delle discoteche però, specialmente Salvo, che era quello da sempre più impegnato in interessi come la politica ad esempio e le trovava generalmente inutili. Daniele ed io le frequentavamo saltuariamente ancora, io perchè avevo bisogno di un palco dove pavoneggiare la mia nuova tecnica di cotonatura dei capelli, e perchè alla fine mi piaceva ballare, e lui perchè aveva gli ormoni in subbuglio, si godeva con gentile modestia l’essere bello e si faceva corteggiare senza rimorsi dalle ragazze che immancabilmente gli giravano attorno.
Anche io avevo le mie fans, ma per me erano solo creature evanescenti, non le vedevo quasi. Alcune di loro mi avevano soprannominato “Il Crocifisso”; non bevevo, non fumavo, non rimorchiavo. Ma mi piace pensare che quello fosse alla fine un nomignolo benevolo per lo più dettato dalla loro frustrazione nel non potere raggiungermi che da altro, perchè nonostante la mancanza di vizi ero affabile, amichevole e discretamente popolare, specialmente per il mio look che raramente falliva nel raccogliere complimenti e adulazione, o almeno da certi e certe. Ci faticavo su quel look quindi lo scrivo senza falsa modestia.
Come combriccola avevamo invece ottenuto il restrittivo appellativo de “I ragazzi di Giarre”; l’omissione di Riposto, dal quale comunque solo io provenivo, mi feriva. Come osavano? Non lo sapevano che era la parte della vecchia Jonia dove era nato Franco Battiato?
Eravamo noti appunto per il nostro look preciso ma anche per i nostri gusti musicali attenti. Un Venerdì al Golden Gate, Antonio Vetrano, storico sovrano della vita notturna alternativa e gotica cittadina, introdusse dalla DJ consolle il pezzo A Day dei Clan of Xymox.
- Un pezzo pesante che solo i ragazzi di Giarre riescono a ballare! - annunciò senza pudore al microfono nel suo inimitabile stile, cosa che mi travolse di totale imbarazzo, ma di lieve orgoglio allo stesso tempo. Da rabbrividire, ma erano questi piccoli traguardi banali che ti rendevano partecipe della scena piuttosto che solo spettatore.
A questo punto il nucleo centrale dei ragazzi di Giarre era soprattutto composto dal trio di Daniele, Salvo e me, o i “Three Imaginary Boys” (Tre ragazzi immaginari), come c’eravamo battezzati, dal titolo di un album dei Cure, per l’intestazione di un annuncio per amici di penna che avevamo fatto pubblicare sul mensile musicale TuttiFrutti.
Quel mese in copertina compariva l’ex degli Smiths, Morrissey, e siccome ai tempi eravamo tutti bramosi per accaparrarci qualsiasi briciola di materiale su quello che ci interessava, molti dark e new wavers in Italia ne avevano acquistato una copia, e in valanghe ci scrissero, da tutte le parti.
Fu l’inizio di corrispondenze postali eccitanti e magnifiche, che sfociarono certe in vere amicizie ed incontri, altre addirittura in pseudo interessi romantici, altre in contatti quasi pericolosi. Storie che solo negli anni ‘80.
Al Golden Gate si susseguirono o sovrapposero (a questo punto la cronologia va davvero perdendosi) una serie di serate e locali vari, più o meno di successo, anche in frazioni di paese vicino Catania, come Mascalucia e San Gregorio, dove c’erano due locali abbastanza frequentati dei quali non ricordo il nome. Con degli amici, stavolta Catanesi, organizzammo anche noi una serata al Golden Gate: il “Phobia Party”. Si rivelò un discreto successo, con me a governare la DJ consolle, l’inizio di qualcosa che faccio tuttora, sebbene con altre selezioni musicali. A fine serata quella notte lasciai metà dei miei adorati dischi incustoditi e nel posto sbagliato per mezzo minuto, e naturalmente dopo solo un battito di ciglia erano scomparsi. Da crepacuore, ma d’altronde di queste cosette schifose ai tempi ne succedevano sempre.
E poi posti classici, ma che non mi sono mai piaciuti, come il 999, al di fuori del quale una volta con mio immenso orrore scoprì che mi avevano rubato la Fiat Panda che dividevo con mia sorella, e il Los Locos, un bar dove al pian terreno c’era la gente “normale” e dove sotto c’eravamo tutti noi, per qualche motivo. Un posto asettico, freddo, con le luci di nuovo a palla, ma che avevamo adottato non ricordo per quale ragione. Come al solito a Catania si stava sempre seduti in gruppetti ai tavoli di questi locali, cosa che donava alle serate un’essenza statica, monotona e decisamente noiosa.
In quel periodo però ricordo iniziavano ad esserci, in contrasto, i cosiddetti Dissipation Parties, così chiamati perché quelli che li organizzavano (Vetrano di nuovo tra loro) avevano inventato un cocktail letale chiamato appunto Dissipation, che a quanto pare ti dava una sbronza mostruosa. Non sono mai riuscito ad andare ad una di queste feste improvvisate, soprattutto perchè come dicevo non bevevo ancora, ma almeno mi suonavano trasgressive e divertenti, e su di loro ne sentivo dire di cotte e di crude.
Ad ogni modo, una volta quasi del tutto esaurita la sete di vita mondana per sé, il nostro interesse si focalizzò sui centri sociali, come l’Esperia e poi l’Auro, e soprattutto sui concerti i quali erano, comunque da sempre, quello che ci interessava di più.
Andammo a vedere i CCCP Fedeli Alla Linea all’Ente Fiera, in treno, nell’estate dell’88, riuscendo a raccattare passaggi al ritorno, divisi in diverse macchine. Eravamo stati i primi ad alzarsi dalle sedie a inizio concerto per andare davanti al palco a ballare e pogare; noi, i ragazzi di Giarre, e ci sentivamo pionieri. Il feroce pogo (il ballo punk simile ad una specie di lotta saltellante) che presto si formò, mi donò lividi per una settimana, ma di ogni piccola macchia e dolore ne andavo fiero.
Nell’Aprile dell’89 tutti distrussimo le poltrone del Teatro Metropolitan per il concerto dei Litfiba; gli organizzatori evidentemente volevano che stessimo seduti e compìti, ma naturalmente ci alzammo tutti subito appena il gruppo si presentò sul palco e passammo l’intero concerto a bilanciarci pericolosamente sui braccioli vellutati, creando non pochi danni.
L’intera audience finì criticata sulle pagine de La Sicilia il giorno dopo, come una massa di vandali e mentecatti.
Il cantante Piero Pelù, nei suoi ultimi momenti da icona alternativa prima della trasformazione bislacca da reality TV dei giorni odierni, aveva dedicato il pezzo “Apapaia” a tutti gli obiettori di coscienza. A me avevano da poco accettato la domanda appunto per il servizio civile, cosa alla quale tenevo tantissimo perché neanche schiattato avrei fatto il militare, e come risposta urlai la mia gioia di getto e a totale squarciagola, con le lacrime trattenute a malapena. “Ri-spe-tta le mie idee”!
Vedevamo di tutto, se ce la facevamo, anche roba che c’entrava poco con noi o il nostro gusto, ma il concerto dal vivo era l’evento che ci dava linfa, che ci valorizzava. Quelli delle band Italiane storiche, Neon e Underground Life alla villa di Acireale, furono anche piuttosto mitici, e le miriadi di concerti di gruppi locali, più o meno buoni, fornivano sempre scuse per aggregazione e socializzazione.
Allo stesso tempo, con mio estremo sbalordimento, scoprì che Salvo, Daniele e Pasquale avevano anche loro formato un gruppetto, gli “Afterglow”, praticamente senza dirmi niente, e facevano delle prove galeotte e traditrici di pomeriggio nel garage di Pasquale, a mia totale insaputa. D’altronde ero l’unico che non sapeva suonare uno strumento musicale (il flauto traverso che avevo studiato all’età di 12 anni era ormai imbarazzante e non contava); mi sarebbe rimasto soltanto il compito di cantare, e Pasquale, a parte suonare la chitarra, era già il titolare di quella posizione. Mantenere il segreto nei miei confronti era stata per loro l’unica crudele alternativa, un piccolo trauma che non mi ha mai completamente abbandonato.
In quel periodo comunque cominciammo a frequentare il locale Catanese che per sempre rimarrà impresso nella mia memoria come il mio preferito fra tutti, e quello che credo fu il più importante dell’epoca: il Macumba, ubicato vicino la piazzetta dei chioschi conosciuta come Piazza Umberto.
Il Macumba era il locale “underground” per eccellenza; intanto dovevi scendere letteralmente giù nel seminterrato di un garage, mi sembra, per poi entrare nel locale vero e proprio. Era abbastanza buio all’interno, finalmente; mi ricordo infatti tutto l’arredo sembrava prettamente scuro o nero e, ovviamente come ogni locale Catanese, il posto era fumoso all’inverosimile, con un’atmosfera immediatamente dura ma eccitante. C’era un piccolo palco sulla sinistra e se non ricordo male una fila di sedie in pelle rossa che potevano essere state ripescate da un vecchio cinema, o qualcosa del genere.
Aveva a che fare con uno degli Uzeda se non sbaglio, storica band Catanese che aveva avuto, e ha tuttora, un certo successo a livello nazionale e non. Insomma, aveva una connessione con dei musicisti, quelli “veri” intendo, quindi era frequentato da persone che avevano come primo interesse bere e ascoltare musica dal vivo. Ma non mancavano i tipi come noi che, oltre quello, volevano anche sfoggiare stivaletti a punta e capigliature antigravità.
Infatti una componente dark lo frequentava assiduamente; sta di fatto però che ogni volta che entravo mi sentivo addosso lo sguardo degli ex Berlinesi, cosa che mi faceva sentire un po’ debole, e forse cominciavo pure a dubitare di questa mia fede così apparentemente solo estetica e priva di compromessi.
Indimenticabili concerti si erano susseguiti in quella cava, spesso fredda in inverno. I Gronge di Roma, che avevano come chitarrista Paolo Taballione del gruppo dark Carillon del Dolore che amavamo.
Con loro facemmo amicizia; ci invitarono pure nel loro studio prove a Roma, e Daniele ed io, dopo un concerto dei tedeschi Einstürzende Neubauten al teatro Astra della capitale un po’ di tempo dopo, allo studio dei Gronge ci andammo davvero. Poi il concerto agitato dei Negazione, dove c’era un’atmosfera a dir poco incendiaria. Non ultimi i Quartered Shadows, con un Cesare Basile truccato agli occhi e imbacuccato di camicia in pizzo bianca. Desideroso forse di approvazione da uno dei “grandi”, mi complimentai con lui velocemente dopo il concerto, gesto che fu ricambiato da una piatta indifferenza, e chi poteva biasimarlo.
Ma forse, il più memorabile fu il concerto degli americani Christian Death: era uno dei nostri gruppi preferiti e ci sembrava pazzesco che suonassero a Catania, a mezz’ora di autostrada.
Si temeva la calca e soprattutto il pogo che avrebbero potuto crearsi; accaddero entrambe le cose, ma alla fine fu il cantante Valor a farsi male rompendosi una gamba saltando da un altoparlante dopo il concerto. Lo lasciammo tutti lì a terra a rantolare, mentre ci facevamo le foto col chitarrista, che era decisamente più figo. Peccato che giorni dopo scoprimmo che Salvo aveva semplicemente dimenticato di caricare la macchina fotografica dell’essenziale rullino, svista per la quale lo maledicemmo tutti per anni.
Crudeltà a parte in quei tempi in realtà cercavamo già di essere corretti, socialmente coinvolti, poeticamente rispettosi di tutti e tutto quello che ci sembrava moderno, civile e progressista, ma a volte la disperata voglia di essere “giusti” prevaleva e ci faceva essere decisamente anche un po’ stronzi.
La notte di quel concerto, dei ragazzi di ritorno a casa morirono in un incidente stradale, credo fossero di Acicastello o Acicatena, si diceva fossero ubriachi; ad ogni modo, fu una notizia terribile che stese un velo cupo non solo sulla serata, ma sulla scena in generale, almeno per un po’ di tempo.
Come scritto prima alcol e soprattutto droghe, a parte qualche imbarazzante soffocato spinello, non facevano parte del mio mondo, ma naturalmente di usi ed eccessi ne sentivo parlare. Quasi tutti i miei amici avevano avuto almeno un piccolo incidente in macchina in stato di ubriachezza e non mancavano quelli che collassavano ad ogni angolo, soprattutto nelle discoteche. Tranquillanti come Valium e Tavor abbondavano; ricordo che c’era questo medicinale potente chiamato Darkene, credo per epilettici, che si prendeva a gocce e ti faceva diventare momentaneamente cieco; un intrattenimento balordo, ma che suppongo andasse a tono con il nichilismo del caso. Il nome stesso naturalmente, e stupidamente, attraeva. Di uso di eroina se ne sentiva parlare naturalmente, d’altronde in quegli anni non era mistero. Riposto ad esempio a quanto pare fosse culla abbastanza ricettiva, dato che si diceva che la roba arrivasse al porto, con le navi.
Stati di alterazione a parte, il giro sia in paese che in città in quegli anni proliferava organicamente di personaggi e comportamenti a dir poco pittoreschi e una sorta di mitomania quotidiana era facile da riscontrare.
C’era chi ti diceva che non ascoltava musica da anni per darsi un tono surreale, chi raccontava di esaurimenti nervosi quotidiani ed eccessivi, chi parlava con gli spiriti, chi era in preda a possessioni demoniache. Erano concessioni edulcorate, amatoriali e caleidoscopiche che fungevano a far si che la messa in scena generale fosse almeno sufficientemente pregna di follia creativa, malleabile e di intrattenimento.
C’era anche una copiosa dose di violenza quasi dappertutto, o forse dovrei dire di una sorta di nervosismo distruttivo.
A Catania girava un discreto numero di Skinheads con le solite ignobili fisime di estrema destra; difatti, ma di questo non ho prove effettive, si diceva che certi dark fossero di destra pure, cosa che cozzava con le aspirazioni liberali del movimento e che tuttora a pensarci mi sconcerta.
C’era uno skinhead in particolare, del quale non faccio il nome, che faceva il pezzo grosso e che tutti temevano: quando arrivava ad un concerto o in un locale, sapevi che sarebbero stati guai. Non c’erano veri e propri motivi per queste esplosioni di rabbia, penso questa violenza fosse da manuale, oppure era nelle vene, ma risse ed episodi di confronto, grossi o piccoli, non erano inusuali.
Poco a poco ad ogni modo ci spostammo dal Macumba: i concerti diventavano meno numerosi o interessanti e alla fine tristemente il locale chiuse, anche se non ne ricordo esattamente il perchè. Bazzicammo La Cartiera per un po’, in piazza Teatro Massimo, popolando, quando il tempo permetteva, le sue scalinate.
Nell’estate del 1989, di scalinata avevamo colonizzato quella Alessi, fuori dal mitico Nievskj, il locale con una direzione politica di netto stampo comunista. Non lo avevamo mai frequentato fino ad allora perché si diceva fosse covo di intellettuali e, nonostante non ci sentissimo inferiori, impreparati o ineducati, questa cosa ci puzzava un po’. Sbagliavamo. Naturalmente non c’era nulla di pretenzioso all’epoca nel voler sfoggiare la tua sapienza. Ogni tanto infatti piaceva fare un po’ gli altezzosi pure a noi; un paio di volte frequentammo il Centro Voltaire, dove c’erano eventi di arte e performance sperimentale che, se non sbaglio, avevano a che fare col gruppo teatrale Famiglia Sfuggita. Loro li ammiravamo molto, soprattutto perchè una volta avevano messo in scena una performance strepitosa, proprio sulla scalinata Alessi. Si buttarono addosso secchi d’acqua, ripetutamente e per ore; una presa in giro furba e intelligente nei confronti di quella persona nascosta e misteriosa che per un’intera estate, puntualmente dopo la mezzanotte, a noi tutti nottambuli, buttava l’acqua dai piani alti del palazzo del Nievskj. Alla fine si venne a conoscenza di chi fosse questo missionario segreto: fu una rivelazione sorprendente che lascio all’immaginazione o alla memoria di chi mi sta leggendo.
Letture e cinema erano pure importanti; divoravamo Kafka, Camus, Baudelaire, e la retrospettiva di Wim Wenders un’estate all’amata Arena Giardino di Riposto ci tenne occupati e felici per numerose sere.
Col tempo cominciammo a viaggiare più spavaldi; non mancavano le trasferte sia per vacanze o per concerti a Firenze, Bologna, città che ci venivano descritte come mecche di cultura alternativa.
Nel Giugno dell’89 partimmo in gruppo per vedere finalmente i Cure a Roma, un momento celebrativo immenso, una memoria indelebile e preziosa. Nell’inverno dello stesso anno presi da solo il treno fino a Milano, forse la meta più ambita, per andare a vedere gli scozzesi Jesus and Mary Chain al Rolling Stone, avventura eccitantissima per un 18enne meridionale e di provincia.
Arrivato in città ero subito scappato ad acquistare una bottiglietta di lacca perchè non esisteva proprio che mi presentassi ad un concerto con la capigliatura fuori posto, specialmente ad un concerto al nord. D’altronde quella sera mi sentivo di rappresentare da solo il sud, ma mi sbagliavo. Mentre camminavo, indirizzandomi verso il locale, mi imbattei nel l'immancabile Vetrano, che era lì per lo stesso motivo. Vedendomi non credette ai suoi occhi e finì per ridere per anni della bizzarra visione di me mentre camminavo in Viale Buenos Aires cotonando i capelli allo stesso tempo, quasi sepolto in un cappotto che cercava a malapena di proteggermi dal freddo tagliente.
Il 1990 portò la prima visita a Londra; fu subito amore acceso, ma in un certo senso forse anche l’inizio di una trasformazione non solo estetica ma anche interiore. In quell’Agosto torrido Londinese avevo visto così tanti di quei dark e new wavers che una volta tornato a casa sentivo quasi come se un capitolo si stesse preparando a chiudersi. L’anno successivo feci un’altra visita, ma stavolta gli anni ‘80 avevano finalmente lasciato spazio alla nuova decade e di ritorno quell’anno in valigia portavo magliette di gruppi non dark come Ride e My Bloody Valentine.
Nel 1992 tornai a Londra per 6 mesi per studiare inglese. Fu tecnicamente la mia ultima stagione dark: rimasugli appiccicati con la forza della passione tiepida che mi era rimasta. Il mio allontanamento finale dalla scena si sarebbe manifestato in pieno una volta trasferitomi permanentemente nella capitale Inglese, insieme a Daniele, nel 1993, dislocamento che creò una perenne diaspora dei tre ragazzi immaginari.
Sono ancora qui.
Daniele si è spostato e vive in un paese al nord della città con moglie e figli. Ci sentiamo e vediamo saltuariamente, ma sempre con fede ed affetto, e non ci dimentichiamo mai di farci gli auguri per i rispettivi compleanni. I suoi figli sono una gioia e la sua bella moglie ha anch’essa frequentato la scena gotica Inglese in passato, anche se non è questo il motivo per il quale si sono incontrati.
Salvo vive tra Giarre e Catania. Nonostante lo veda due volte l’anno, la nostra amicizia non si è mai spenta e anzi negli anni si è solidificata. Un eterno ribelle, tanto quanto me, e soprattutto sognatore, anche se lo negherebbe alla follia. La scorsa estate abbiamo realizzato insieme una mia mostra a Torre Archirafi, frazione di Riposto; esperienza ricca e pregna di tale bellezza e ispirazione che mi verrà difficile dimenticare.
Questa longevità dei rapporti è forse il merito di aver vissuto insieme quell’avventura adolescenziale in maniera così irrevocabilmente piena di pathos, solidarietà, devozione, gioia e sofferenza. Una missione personale e non, basata su di una visione dello scambio umano inteso in una maniera costruttivamente specifica e precisa.
Il sostegno e la fiducia che doni e ricevi, l’identificazione e la crescita interiore accelerata che sei costretto ad elaborare in quelle circostanze, non le cambierei con nulla. A chi mi chiede perché facevamo e sopportavamo tutto ciò: i vestiti, i modi, la musica, gli sforzi, le beffe e i soprusi, rispondo che era una scelta inevitabile e comunque una vita bellissima, magica e avventurosa, e rifarei tutto da capo subito. Eravamo super eroi esistenziali, eleganti pavoni neri, folletti urbani futuristici, e le nostre azioni erano frutto del considerare l’essere in maniera alla fine incredibilmente produttiva, coerente e sensata.
La tanto aspirata città, o nel mio caso di Londra metropoli, è diventata il mio nido, ed è una cosa che non prendo mai per scontato e che non smette mai di affascinarmi. Ho trasformato e contestualizzato i miei scarabocchi da alunno annoiato in una carriera e in opere d’arte acquistate in tutto il mondo: da musei come il British Museum di Londra o il MoMa di New York, e tutt’ora mi dò i pizzicotti per accertarmi che non sia un sogno. Lo dico un po’ per vanità, ma anche e soprattutto per mettere in prospettiva e sottolineare l’impatto di quelle scelte giovanili che so per certo siano state cruciali nello scolpire lo spirito che mi attraversa tuttora, sia come artista che come uomo.
Ma mi piace moltissimo tornare puntualmente in Sicilia in vacanza, cosa che faccio religiosamente. Visito Catania ancora con candida eccitazione e con rinnovata curiosità, pernottando in zona Fortino a casa della mia eterna amica Piera, anch’essa conosciuta in quegli anni gotici; una giovane dark con look impeccabile che mi fulminò immediatamente a prima vista, e che automaticamente scelsi come sorella spirituale, ruolo che occupa ancora, e che occuperà per sempre.
.
Ma in particolare, è nelle mie passeggiate in paese, a Riposto, dove mi sorprendo ancora delle mie stesse reazioni.
Da piccolo non mi muovevo mai senza scooter, adesso cammino per ore e vado a piedi dappertutto.
Io sono cresciuto di misura e il paese, come accade agli adulti, si è ristretto, e mi sembra piccolissimo a volte, le viuzze del centro quiete e vuote la sera, con le ombre che si allungano dietro mentre cammini. Ed è in questi momenti solitari, ma ricchi, che anche io rimpicciolisco di nuovo e con gli auricolari del mio ipod nelle orecchie, quasi chiudo gli occhi e ancora una volta, mi trasformo.
Il cappotto nero si stende e mi avvolge, la chioma mi cresce perfettamente scolpita, le scarpe diventano affusolate e la barba scompare, lasciando la pelle del viso fresca, giovane e pallida.
Un sorriso sulle labbra infine comincia a nascere, anche se non spunta sfacciato ed esuberante per intero fuori; se ne sta per lo più quieto, vittorioso ed amico, soprattutto dentro.
Seb Patane, 2018